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Il virus che non prova sentimenti

Pubblicato da CARLA DE SIMONE in 11 aprile 2020
Pubblicato in: Senza categoria. Lascia un commento

Con l’ultimo DPCM del 10 Aprile sono state prorogate fino al tre maggio le misure di contenimento per sconfiggere il Coronavirus, in vigore ormai da un mese.

La parola d’ordine continua ad essere #iorestoacasa.

Conferenza stampa per annuncio proroga misure di contenimento – fonte gov.it

il virus, insensibile al nostro bisogno di contatto umano, sordo a qualsiasi esigenza economica, spietato nel toglierci ciò che fino a ieri abbiamo dato per scontato, ci sta costringendo a un isolamento forzato.

Una condizione mai sperimentata, nella quale riscopriamo il valore di ciò che abbiano perduto e forse avevamo dato troppo per scontato.

foto Tomwsulcer CC0

Fino a ieri, il like su un Social Media spesso contava più dell’opinione di un amico. Al ristorante ci si incontrava, ma si preferiva chattare sullo smartphone, anziché guardarsi negli occhi e parlare.

Da domani, quando l’emergenza sarà finita, niente sarà come prima.

Per questo forse, il virus ci offre l’occasione per riflettere su come desideriamo che sia il nostro futuro. A partire da quelle piccole cose in parte perdute, ma sicuramente da valorizzare, per quello che ne rimarrà.

Le statistiche ci dicono che in media spendiamo sei ore al giorno navigando su Internet, sui Social Media e guardando video. A questo tempo si devono aggiungere le ore che usiamo PC smarthone e tablet per lavoro.

Tempo trascorso su Internet ogni giorno – fonte: Global Report 2020 di We Are Social

Paradossalmente, nel momento in cui possiamo dialogare solo virtualmente, riscopriamo il bisogno di incontrarci, parlare a viso aperto e perchè no, stupirci anche di fronte a una nuova sensibilità collettiva, finora assopita.

In poche parole: Internet e Social Media non ci bastano più.

Iniziamo a fare appello a quella solidarietà, a quel bene comune, che spinge ognuno ad abbandonare schermo e tastiera, uscire dalla propria “zona di confort” per fare la propria parte.

Perchè è questa la strada che ci consentirà di salvare e di salvarci.

Siamo stati colti impreparati da un virus sconosciuto, entrato a gamba tesa nello scorrere frenetico della nostra quotidianità.

Tutti gli accessi ai nostri stili di vita sono stati sbarrati, costringendoci a ridefinire un nuovo ordine nella piramide dei bisogni, demarcando la netta separazione tra ciò che davvero è indispensabile, riscoprendo l’essenziale.

Parlare, intendersi, dialogare, fare fronte comune per trovare nuove soluzioni, recuperare un confronto reale, non segnato dall’artificiale e dall’immaginario.

Perchè è il rapporto con l’altro, autentico e diretto che riesce a farci sentire più arricchiti ed empatici, come stiamo riscoprendo in questi giorni.

Sicuramente è diverso dall’ottenere un like.

foto pxfuel.com

Tuttavia, anche se sembrano avere un sapore antico, sono le relazioni personali, quelle da cui nasce l’empatia e la indispensabile solidarietà, per uscire dalla crisi che viviamo e da quella che ci attende nella seconda fase.

Del resto già Aristotele diceva che l’uomo è un animale sociale, dunque ha bisogno di relazionarsi con i propri simili.

Quindi il virus che, ignorando ogni confine, ci ha costretto nelle nostre abitazioni , per contro ci sta dando la possibilità di uscire dalla “scatola virtuale” nella quale stavamo vivendo, per riappropriarci di questo concetto.

Inoltre, Il virus ha stabilito una specie di “democrazia virale”, dove ogni Paese in questo mondo globalizzato, scopre di correre gli stessi rischi.

Covid19 situazione del mondo al 10 aprile – fonte: Minstero della Salute

Infatti al momento nessuno ha una soluzione definitiva, indipendentemente dal PIL o dal livello del debito pubblico.

Scopriamo così come la nostra storia di vita, individuale o collettiva, si lega, si rispecchia e si arricchisce in quella dell’altro.

E’ un ciclo virtuoso in cui ognuno scopre di avere bisogno dell’altro, che sia una persona o uno Stato. Nessuno potrà farcela senza l’altro, perchè il contagio non si ferma alla frontiera e non ha riguardo per la qualità delle persone.

I telegiornali ci raccontano di come le misure adottate prima dalla Cina e in seguito dall’Italia, siano state gradualmente adottate più o meno velocemente dagli altri Paesi.

Diverse people stacking hands together
foto pxfuel.com

Far tesoro di questa comune esperienza, diventa un’occasione per sentirsi davvero parte di una stessa collettività e abbattere le barriere.

La Pandemia è l’opportunità per rigenerare i canali fondamentali della socializzazione, nel tentativo di riuscire ad esprimere empatia e socialità, non accontentandoci più di comunicare in modo superficiale.

Il virus ci costringe, nostro malgrado, ad una presa di coscienza: accettare l’idea che oltre a noi stessi esiste “l’altro” e non solo come interlocutore virtuale.

L’altro che in questa emergenza sanitaria si è concretamente manifestato nelle categorie più fragili, quelle a rischio, i malati, gli anziani, volontari, medici e infermieri in prima linea.

Gesti di responsabilità comune come lavarci le mani ed evitare baci e abbracci, intrecciano il nostro bene a quello degli altri, in un legame a cui forse non eravamo più abituati a pensare.

foto pxfuel.com

Emerge, con la paura del contagio, la consapevolezza di come ognuno di noi, nella singola goccia della propria esistenza, contribuisca a formare il mare!

La nostra percezione delle cose forse sta mutando.

Forse è giunto il momento per un cambio di passo. Un nuovo modo di esprimere le proprie esigenze in un pensiero sostenibile a tutto tondo.

Noi, l’altro, ciò che circonda, formiamo un tutt’uno. Non può esistere la società senza l’individuo, non esiste un individuo che non abbia bisogno dell’altro e dell’ambiente in cui vivere.

Il fatto che in queste drammatiche settimane sia sceso drasticamente l’inquinamento atmosferico in Cina ma anche in Italia, come riportato dai satelliti della Nasa, ci fa riflettere molto.

Il virus ci sta dimostrando che in mancanza di un intervento umano è la natura a provvedere e quando Madre Natura prende il controllo, l’uomo si scopre in tutta la sua fragilità.

Perciò, forse questa pandemia può diventare lo stimolo, per ritrovare la via maestra verso una responsabilità collettiva.

Perchè accada realmente occorre avere il coraggio di guardare avanti, pensando di costruire insieme un futuro migliore in cui vogliamo vivere.

Per noi e per le generazioni a venire.

foto pxfuel.com

Un nuovo modo di pensare, per realizzare più benessere nelle nostre vite e in quelle degli altri. Dalla cura del nostro pianeta, alla cura dell’uomo e della nostra società.

In questa emergenza ci stiamo riscoprendo tutti più forti sia come singoli individui sia come comunità.

Sicuramente la scienza troverà il vaccino per il Coronavirus …noi stiamo mettendo a punto il vaccino più importante: quello della Consapevolezza, dei sentimenti ritrovati verso l’altro, del nuovo senso di responsabilità collettiva.

“#Uniti ce la faremo” mettendo in campo un nuovo modo di pensare!

Il Digital Divide e l’Unità d’Italia. La trasformazione digitale e le nuove opportunità

Pubblicato da CARLA DE SIMONE in 28 gennaio 2017
Pubblicato in: Articoli da Reputation Today. Tag: Area grigia, Aree Bianche, Digital Divide, modernizazione, Unità d'Italia. Lascia un commento

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In questi giorni navigando in rete mi sono imbattuta in un interessante articolo pubblicato sul corriere.it nel 2011, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Nel pezzo Giuseppe Monsagrati, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma spiegava che «L’unità fece molta presa sulla gente ma ovviamente non riuscì a risolvere i problemi. Il nostro reddito pro capite era la metà di quello inglese e un terzo di quello francese. Chi nasceva in quel momento doveva fare i conti con un paese povero di risorse, materie prime e infrastrutture».[1]

Luciano Cafagna, storico ed esperto delle questioni legate alla formazione dell’economia industriale in Italia, ha calcolato che al momento dell’unificazione la differenza di capacità produttiva tra nord e centro-sud nel settore agricolo, ancora trainante all’epoca, andava dal 10 al 20%.[2]

In ambito industriale, settore innovativo in piena crescita nel 1861, le regioni del nord producevano undici volte più ferro di quelle del meridione d’Italia, mentre rispetto all’Inghilterra, all’epoca la nazione più industrializzata, dunque maggiormente “tecnologica”, la differenza si aggirava intorno al 100%.[3]

La scarsa capacità produttiva era conseguenza della mancanza di infrastrutture in grado di supportare lo sviluppo industriale. Lo storico Emanuele Felice ci informa, ad esempio, che gli abitanti del Regno delle due Sicilie nel 1859 disponevano di 99 chilometri di ferrovia, contro gli 850 di liguri e piemontesi, 522 dei lombardo-veneti e 257 dei toscani.[4]

Già nel periodo antecedente all’unificazione nelle aree centro settentrionali, sia in grandi città come Milano, Torino e Genova sia nei piccoli centri, si sviluppa una rete di intermediazione finanziaria con l’apertura di sportelli di Banche e Casse di Risparmio. Un fattore che si dimostrerà strategico nel supportare lo sviluppo economico e industriale, assente tuttavia nelle aree meridionali.[5]

In altre parole, al momento dell’unificazione il 52% della popolazione al sud viveva al di sotto della soglia di povertà, con un reddito inferiore del 20/25% rispetto a quello degli abitanti del nord. Inoltre il tessuto economico era pressoché del tutto privo di moderne infrastrutture industriali, equivalenti in termini di innovazione alle attuali tecnologie digitali.[6]

Cosa è cambiato dopo oltre 150 anni? In primo luogo la parola d’ordine non è più “Rivoluzione Industriale” ma “Digital Innovation”. In pochi decenni, le tecnologie digitali hanno trasformato il modo in cui comunichiamo con gli altri, facciamo affari, produciamo lavoriamo e perfino come trascorriamo il nostro tempo libero.

Rapidi sviluppi e trasformazioni comportano molteplici aspettative per il futuro, in termini di ricchezza prodotta, progresso tecnologico e più elevati standard di vita. Per contro pongono nuove sfide in termini di acquisizione di nuove competenze,

L’emergere di nuovi mercati sempre più dinamici necessita di maggiori tutele dei consumatori, ottimizzazione dei processi industriali, maggiore fiducia, garanzie di sicurezza e tutela della privacy. Occorre verificare quindi se, oltre alla “parola d’ordine” è cambiato anche il contesto e si sono realizzate quindi le premesse per la realizzazione di questa trasformazione.

Ad oggi, sotto il profilo della innovazione digitale e nel senso più generale dello sviluppo, l’unità nazionale è ancora lontana dall’essere realizzata. Il Digital Divide è una realtà, come sanno molto bene gli imprenditori che lavorano nelle aree più problematiche.

cartina-italiaNon a caso sono stati stanziati 3,5 miliardi delle cosiddette “aree bianche” (quelle a fallimento di mercato dove un operatore privato, senza fondi pubblici, non investirebbe), dislocate in 7300 comuni dove risiedono 18 milioni di italiani.

Di questi 1,6 miliardi arrivano dal Fesr (fondi regionali europei), 233 milioni da fondi Pon, (il Piano Operativo Nazionale di sviluppo), destinati a Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, ma soprattutto 1,557 miliardi sbloccati dal Cipe lo scorso 8 agosto.

L’obiettivo è quello di garantire entro il 2020 una copertura dell’85% del territorio nazionale con infrastrutture in grado di supportare servizi fino a 100mega e assicurare al restante 15% una velocità pari ai 30mega, come richiesto a tutti i membri dell’Unione Europea. [7]

Tuttavia l’obiettivo è prioritario in quanto soprattutto la Rete italiana ad oggi lascia ancora molto a desiderare. Il rapporto Akamai relativo al primo trimestre 2016 ad esempio, evidenzia la presenza in Italia solo del 7% di connessioni uguali o superiori ai 15 Mbps.

Il nostro Paese scende nella classifica posizionandosi al 52esimo posto a livello mondiale e al 28esimo a livello EMEA. Un quadro ben poco lusinghiero, soprattutto per una nazione la cui economia ha una disperata necessità di tornare a crescere.

Il Digital Divide che affligge il mezzogiorno è il risultato di una modernizzazione mancata o insufficiente, frutto di iniziative estranee al tessuto imprenditoriale locale. Di conseguenza l’imprenditoria locale è relegata   in ruoli marginali, non è messa in condizione di generare uno sviluppo autonomo, correttamente sostenuto e finanziato dall’esterno.

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Ogni volta che attraverso il pretesto di stimolare lo sviluppo di un’area, si sovrappongono ai reali bisogni locali interessi estranei, si preclude la possibilità di un «protagonismo endogeno», ossia di uno sviluppo realmente radicato su territorio.[8]

Guardando alla storia passata ritroviamo fallimentari progetti industriali che hanno deturpato aree turistiche come Bagnoli in nome di una industrializzazione quanto meno forzata o di cattedrali nel deserto come la spianata di Gioia Tauro, dove sono sati rasi al suolo aranceti secolari per fare posto a un porto industriale mai realizzato.

Oltre il 65% delle aziende italiane si trova nella cosiddetta “area grigia”, dove il governo cioè non può accedere direttamente per portare la banda ultralarga, si trovano dunque in una condizione in cui non sanno quando e se arriverà mai il progetto di sviluppo digitale.[9]

In simili condizioni è d’obbligo chiedersi allora come è possibile pensare a un’Industria 4.0 senza banda larga ed ancora attraverso quali strategie è possibile incrementare la produttività rinunciando alla banda ultralarga, in altre parole dobbiamo domandarci se è possibile ottenere uno sviluppo economico rinunciando all’innovazione.

Se pensiamo al futuro, dotare di banda ultralarga aree già commercialmente avviate, condannerebbe buona parte del meridione a rimanere in quella condizione di mancato o insufficiente sviluppo che tuttora, dopo oltre 150 anni, continua a farci dire che l’unificazione non si è ancora conclusa.

Dato ulteriormente negativo sul piano sociale, così facendo in qualche modo si giustificherebbe la classificazione dei cittadini italiani, del nord e del centro-sud, rispettivamente in cittadini di “serie A” o di seconda categoria, con di fatto minore accesso ai servizi ma uguali doveri.

Sul piano dello sviluppo infine continueremmo ad avere una Italia a due velocità, con un sistema produttivo fortemente penalizzato, che inevitabilmente finirebbe per incidere sulla competitività del nostro Paese, già duramente provato da una crisi che richiede investimenti oculati e lungimiranti.

BIBLIOGRAFIA

[1] Giuseppe Monsagrati in Corinna De Cesare, 1861. L’Italia unita fanalino di coda rispetto all’Europa, «Corriere della Sera», 10 marzo 2011, on line: http://www.corriere.it [ultima consultazione 27/11/2016 h, 12,10].

[2] Cfr. Luciano Cafagna, La questione delle origini del dualismo economico italiano, in Id, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989, pp. 187-220.

[3] Cfr. Guido Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico in Italia 1750-1913, Nuova Cultura, Roma 2015, p. 141.

[4] Cfr. Emanuele Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna 2013, p. 22.

[5] Cfr. Id, Divari Regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia, Il Mulino, Bologna 2007, p. 170.

[6] Cfr. Ivi, p. 119; Id, Perché il sud, op. cit., p. 44.

[7] Il Sole 24 ORE del 04/02/2016, pagina 11.

[8] Cfr. Felice, Perché il sud, op.cit., p.111.

[9] Cfr. Start Magazine, Banda Ultralarga, il dramma delle aree grigie, 2 settembre 2016, on line: http://www.startmag.it/innovazione/banda-ultralarga-dramma-delle-aree-grigie/ [ultima consultazione 27/11/2016 h 16,30].

Il terremoto della coscienza e l’etica della ricostruzione

Pubblicato da CARLA DE SIMONE in 4 ottobre 2016
Pubblicato in: Articoli da Reputation Today. Tag: Amatrice, CSR, Ricostruzione, Sisma, Terremoto. Lascia un commento

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Articolo da Reputation Today n. 10 – settembre 2016 – link qui

Negli ultimi 100 anni l’Italia ha subito quattordici terremoti, compreso il sisma che ha devastato Amatrice e le zone limitrofe lo scorso 24 agosto. Ogni volta si è ripetuto il tragico rituale della conta delle vittime e dei danni di una devastazione che ha toccato case, scuole, chiese, esercizi commerciali ma soprattutto vite umane. Centinaia di vite spezzate, vittime del terremoto ma spesso di un tragico, inammissibile stato di cose che si ripete di volta in volta, di tragedia in tragedia.

Scorrendo la lista  dei maggiori terremoti che hanno colpito l’Italia a partire di primi del ‘900, secondo una lista elaborata da Thomson e Reuters 2016 (si veda box) , si legge un triste elenco di vittime e catastrofi che spesso potevano essere evitate.

I principali terremoti in Italia negli ultimi 100 anni

I principali terremoti in Italia negli ultimi 100 anni

Con l’ultimo sisma che ha colpito lo scorso 24 agosto Lazio e Marche si aggiungono ulteriori 300 vittime all’elenco. Ancora una volta ci ritroviamo impietriti di fronte ad una simile straziante devastazione.

Tutto il popolo italiano si è stretto, con sincera partecipazione, attorno alla popolazione colpita dal terremoto, abbracciando idealmente i sopravvissuti che hanno perso tutto in pochi secondi. Dagli affetti più cari e insostituibili, alla casa, i sacrifici di una vita.Ancora una volta è stato il momento del lutto. Abbiamo assistito in silenzio al dolore di tutte quelle famiglie scioccate dall’accaduto, mentre piangevano i loro cari. Li abbiamo osservati mentre, con uno straordinario coraggio, tentavano di ripensare al futuro, a una possibile ricostruzione del loro territorio.

Ma il giorno dopo, quando abbiamo iniziato a elaborare quel lutto, nelle nostre menti ancora una volta sono affiorate le medesime domande: forse questa tragedia era “prevedibile”, visto che il nostro territorio, come ben sappiamo, è continuamente sollecitato da costanti assestamenti sismici?
Perché alcuni edifici hanno retto alla violenza della scossa e altri, fra cui scuole e ospedali appena ristrutturati, sono crollati su se stessi?  Si potevano mettere in sicurezza le costruzioni più a rischio di crollo, adottando i moderni criteri antisismici? Perché in un territorio sismico come il nostro. si è preferito apportare dei “miglioramenti” (cemento scadente e sabbia!) anziché effettuare gli adeguamenti strutturali?

La coscienza collettiva sembrerebbe dire basta a questo sfacelo perché l’uomo istintivamente sa rispondere in modo preciso a questi interrogativi. Sul piano politico anche il nostro governo chiede la necessaria trasparenza nei piani di ricostruzione, per evitare che la doverosa ricostruzione ancora una volta si trasformi in malaffare.

Siamo tutti ben consapevoli che occorre cambiare rotta. Siamo tutti concordi nell’indicare onestà, trasparenza e le necessarie leggi per garantirle. Del resto lo facciamo ogni volta che si verifica una catastrofe simile.

Però se siamo tutti d’accordo perché le cose non cambiano e ogni volta ci ritroviamo a sentire, sperare e dire le stesse cose? Forse perché, paradossalmente, il problema è proprio questo: “fatta la legge trovato l’inganno!” Ad esempio si è scoperta la necessità di impedire, con un’apposita norma, la gara al ribasso negli appalti per la ricostruzione. In passato infatti questo meccanismo aveva favorito l’aggiudicazione dell’appalto da parte di aziende di dubbia onestà, per non dire addirittura colluse con attività di riciclaggio delle mafie.

Il meccanismo avrebbe dovuto garantire il migliore impiego, al prezzo più equo, del danaro pubblico. Nei fatti la mancanza di un’etica di fondo, consente anche ai migliori principi di crollare miseramente davanti ai nostri occhi.

La gara al ribasso si è trasformata così nello strumento per società colluse di aggiudicarsi gli appalti. Semplificando all’estremo, il mancato rispetto delle norme, l’utilizzo di materiali scadenti e altri accorgimenti illegali gli hanno consentito “risparmi” impensabili per società oneste.

Il fenomeno geofisico diventa così il tragico specchio di quel terremoto morale che da anni scuote l’Italia e sembra non trovare mai la sua fine. Ogni giorno piccoli e grandi scandali, locali, regionali e personali rappresentano le scosse di assestamento di questo sisma infinito dal quale il Paese sembra non trovare via d’uscita.

Un’alternativa potrebbe essere la CSR, a patto che non resti una dichiarazione d’intenti ma divenga un’autentica scelta di valori. Principi condivisi a livello manageriale, prima ancora che societario, perché sono gli uomini che formano e dirigono le aziende a compiere le scelte, in base alla loro etica.

CSR - Responsabilità Sociale di Impresa

CSR – Responsabilità Sociale di Impresa

A qualcuno potrà apparire retorico chiedersi a quale principio di responsabilità sociale si è ispirata una delle tante aziende, che ha costruito al risparmio una delle tante scuole, crollate in uno dei tanti terremoti, che ci hanno duramente colpito.

Proviamo allora a pensare se in una di quelle strutture ci fosse stato uno dei nostri figli, fratelli o nipoti. Fermiamoci a ricordare che sotto le macerie di quelle scuole ci sono finiti comunque bambini innocenti. A quel punto la retorica sarà scomparsa, lasciando il posto sia all’autentico significato dell’etica sia alla necessità di aziende che operino in armonia con i principi della CSR, di conseguenza nel rispetto delle necessarie leggi.

Diversamente continueremo a domandarci la ragione per cui la storia continua a ripetersi. Occorre prendere atto che invocare leggi per trasgredirle, aggirarle, eluderle o ignorarle quando ci fa comodo, non risolve il problema.

Occorrono norme interiori ben più forti delle sanzioni giuridiche che, richiamando la coscienza individuale, piuttosto del timore di una sanzione, consentano di fare ciò che è giusto.

Oggi si discute su quali siano i parametri e le regole utili a garantire la sicurezza delle costruzioni nelle zone sismiche. Generalizzando significa stabilire in che modo essere certi che le aziende incaricate operino onestamente e per il meglio.

Si tratta di un’esigenza che non riguarda solo l’edilizia, in questo senso il terremoto rappresenta la “cartina tornasole” di un modo di concepire il lavoro più o meno onesto e trasparente. Un vecchio detto dice “l’occasione fa l’uomo ladro”, un detto ancora più antico recita “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”.

Chissà se qualcuno dei costruttori di quelle case, scuole, ospedali crollati, avrebbe abitato, mandato a scuola un figlio o curato un parente in una delle strutture che ha costruito in quelle zone a rischio…

La società si trasforma solo se cambia la coscienza degli individui. Tutto ruota intorno alle decisioni che ognuno di noi intende adottare nel proprio centimetro quadrato di esistenza. Gli stessi parametri infatti guideranno le scelte, nella nostra attività professionale o di impresa, quando si tratterà di decidere se massimizzare il profitto o privilegiare la responsabilità sociale.

Scegliere la seconda opzione potrebbe scatenare un terremoto in grado, questa volta, di far crollare loschi equilibri e propagare le onde d’urto di un nuovo benessere per tutti, non più basato sulla ricerca spasmodica del profitto, ma di un equilibrio profondo fra gli uomini e tra uomo e ambiente.

Infine, “last but not least” potremmo perfino scoprire che Etica, CSR e profitto si coniugano brillantemente, in deroga al pregiudizio secondo cui “essere troppo onesti non paga”. Una nuova base su cui poter costruire un futuro a prova di qualsiasi terremoto fisco, etico o economico.

A prima vista può apparire una prospettiva utopistica. L’alternativa al sogno tuttavia rischia di essere un incubo, che si concretizza per le aziende nelle difficoltà di un mercato privo di regole certe, in cui non vincono la qualità, l’innovazione e l’impegno.

Continuando nella direzione attuale infatti saranno favorite le aziende che non investono affatto piuttosto giocano disonestamente al ribasso, perché non attente alla qualità e alla sicurezza, oltre che non rispettose delle leggi.

Detto in altre termini, forse rispetto alla fiducia nel valore dell’etica è più illusorio credere che bastano norme e controlli, per evitare di vedere altre case crollare al prossimo terremoto. In mancanza di una reale volontà di costruire, rispettando i necessari canoni di sicurezza, cioè in assenza di un comportamento etico, nessuna norma da sola basterà ad evitare il peggio.

Dunque scegliere di adottare buone pratiche nel settore dell’edilizia, è il punto di partenza per ampliare la riflessione, chiedendoci se non sia opportuno adottare lo stesso principio anche in altre aree di business.

Relegare queste considerazioni nel campo dell’utopia infatti significherebbe accettare di rimanere ancora una volta schiacciati dal terremoto delle nostre coscienze e da un modus operandi che premia non il migliore ma il più “furbo” e disonesto. Allo stesso tempo, continuare a perseguire un modello di business privo di CSR sarebbe FALLIMENTARE, perché destinato a distruggere sia l’ambiente sia il tessuto sociale.

Ricostruire l’etica richiede, in primo luogo, l’abbattimento dei modelli esistenti e il coraggio di perseguire ideali come il benessere collettivo, piuttosto dell’esclusivo profitto aziendale. Anche questo sarà un terremoto in grado di provocare vittime, di cui tuttavia nessuno sentirà la mancanza: i nostri pregiudizi riguardo all’etica nel business e il modo di concepire il business senza CSR

 

Dal paradigma delle 4P al marketing sociale

Pubblicato da CARLA DE SIMONE in 16 giugno 2016
Pubblicato in: Articoli da Reputation Today. Tag: 4P, Capitale Reputazionale, CSR, MArketing Mix, MArketing Sociale, Reputazione Aziendale, RSI. Lascia un commento

Titolo

Negli ultimi venti anni la nuova sensibilità legata ai temi del sociale e dell’ambiente, unitamente alla omogeneità qualitativa, che ha livellato la produzione, hanno reso la CSR uno dei principali indicatori delle performance aziendali, determinando il superamento del tradizionale marketing mix.

Erano gli anni “80 quando iniziai ad avvicinarmi al mondo della vendita e del marketing, quelli dell’edonismo reganiano, della “Milano da bere”, della nascita delle TV commerciali e dello yuppismo, per intenderci. La parola d’ordine era successo, individualismo e ricchezza, ad ogni costo.

4Ps

Autore WikiFB3 da wikipedia Germania

La prima cosa che veniva insegnata, nel mondo della vendita e del marketing, era il “paradigma delle 4P”. Termini come prodotto, prezzo, punto vendita e promozione, traduzione degli inglesi product, price, place e promotion, esprimevano la convinzione che qualsiasi prodotto, con un prezzo adeguato, ben distribuito e pubblicizzato avrebbe funzionato.

Alla fine del decennio il mondo cambiò. La dissoluzione del blocco comunista aprì alla globalizzazione e la fine delle ideologie lasciò spazio ai fondamentalismi religiosi, da cui l’escalation del terrorismo che culminò nell’undici settembre 2001, alimentando il clima di incertezza, che sfociò nella crisi finanziaria del 2007.

In questo mondo globalizzato, privo di riferimenti e valori assoluti, anche il miraggio della ricchezza a portata di mano degli anni ‘80 era tramontato, insieme al vecchio marketing mix. Stavano cambiando sia le esigenze sia, conseguentemente, il modo di comunicare.

Infatti, la nascita tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 di Microsoft, IBM ed Apple aveva piantato il seme del web 2.0. Attraverso l’interattività della rete la comunicazione da “one to many”, diventava “many to many”.

I contenuti, distribuiti attraverso i social media, da quel momento sono il risultato dell’interazione di più individui, non più delle strategie di un singolo soggetto, rendendo impossibile decidere esclusivamente a tavolino i contenuti della comunicazione.[1]

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Autore: http://mkhmarketing.wordpress.com foto scattata il 31/7/2011

Nel nuovo Asset le community on line determinano in larga misura il valore e il successo di un prodotto o di un servizio.  Alzi la mano chi prima di prenotare un albergo, scegliere un ristorante, pianificare un viaggio, decidere l’outfit o acquistare una nuova autovettura, non ha consultato recensioni on line, community e blog tematici!

Tradotto, significa che il mercato propone un “cosa” e un “come” differenti, da cogliere attraverso un altrettanto innovativo concetto di marketing e da soddisfare grazie a una nuova concezione della vendita.

Questa forma di comunicazione orizzontale, incide sul valore percepito del prodotto e del brand, influendo sulla determinazione del prezzo. La qualità non è più la discriminante.

Infatti, grazie ai continui progressi della tecnologia, ormai i prodotti si equivalgono. La motivazione per acquistare un iPhone piuttosto che un Samsung quindi non è più la migliore qualità, piuttosto la “reputazione” del prodotto, ciò che rappresenta per il consumatore possederlo.[2]

Non si tratta più tuttavia di una valore costruibile solo tramite la comunicazione, è il capitale reputazionale sia del prodotto sia del brand stesso a determinarlo.

Anche la distribuzione delle merci e dei servizi deve tener conto delle nuove abitudini dei consumatori. Gli acquisti sono effettuati al di fuori del punto vendita, da device mobile, mentre in negozio si passa a ritirare il prodotto, o magari per visionarlo prima di acquistarlo on line, risparmiando. Attualmente 2,5 milioni di italiani sfogliano volantini digitali solo su mobile, mentre l’88% dei Mobile Surfer è disposto a ricevere coupon sul proprio Smartphone.[3]

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Diagramma illustrativo di una matrice swat, in inglese. Autore Xhienne fonte Image:SWOT pt.svg data 30/9/2007

Queste evidenze si sono trasformate in una sfida per il marketing, rendendo il paradigma delle 4P anacronistico rispetto ai nuovi parametri. Il prodotto da commercializzare oggi è il capitale reputazionale dell’azienda, percepito in termini di affidabilità e credibilità del brand, in relazione alla sensibilità verso le tematiche sociali e ambientali emerse.

Surriscaldamento globale, inquinamento ed energie rinnovabili, più equo allocamento delle risorse e della ricchezza, biotecnologie e gestione dei rifiuti, sono alcuni temi ormai all’ordine del giorno da oltre un ventennio. La responsabilità per il destino della terra e dell’umanità,[4] il perseguimento di una migliore qualità della vita, non riguardano più solo gli individui, coinvolgendo anche le aziende, tramite il tema della CSR. La responsabilità sociale è diventato un “KPI”, uno dei principali indicatori delle performance aziendali.[5]

mijn-business-de-wereld-verbeteren-peter-wollaert-11-638L’argomento non è certo nuovo, il primo a parlarne nel 1953 fu Bowen, a proposito degli «obblighi per i businessman di perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni e di seguire quelle line di azioni che siano desiderabili in rapporto agli obiettivi della nostra società».[6] Si trattava di un’etica delle scelte indirizzata ai valori condivisi, ancora svincolata dalla responsabilità verso l’ambiente e gli individui che ne fanno parte.[7]

Tuttavia, bisognerà attendere l’arrivo degli anni ’60 per sentir parlare di CSR vera e propria,[8] ed arrivare alla fine del decennio successivo, perché Carroll elabori il suo concetto piramidale delle priorità aziendali, ulteriormente definito nel 1991.[9]

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Phd. Archie Carroll da qui

Seguendo la sua gerarchia, alla base della piramide troviamo le responsabilità economiche, reputate imprescindibili per l’attività dell’impresa, all’opposto, penultime prima del vertice le responsabilità etiche.[10] È la prima volta che entrano a far parte delle responsabilità aziendali oltre quelle economiche e giuridiche, reputate da sempre imprescindibili, anche quelle etiche e discrezionali.

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Piramide della Social Corporate Responsability da qui

Da questo momento, perché un’azienda possa essere considerata socialmente responsabile dovrà adottare strategie e obiettivi equi ed eticamente corretti. Scelte capaci di migliorare la qualità della vita della società in cui l’impresa opera, oltrepassando i semplici obblighi di legge e il perseguimento del solo profitto. [11]

La CSR è il frutto di questa consapevolezza, nata dalle crisi economiche e dalla globalizzazione che hanno dimostrato come l’impresa, ottenuto il profitto, non ridistribuisce risorse sufficienti a soddisfare le esigenze di tutti. In realtà solo una piccola percentuale di individui infatti possiede la quasi totalità della ricchezza mondiale. L’economia globalizzata ha evidenziato anche le aporie di una delocalizzazione che accresce il divario fra chi gode dei beni e servizi prodotti e chi continua a essere sfruttato nel produrli, oltre ai danni ambientali che ne conseguono.

Emmanuele Maccaluso_Manifesto MArketing Etico

Video Intervista a Emmanuele Macaluso, esperto di marketing e ideatore del Manifiesto del Marketing Etico. Cliccare sulla foto o qui per il video

Parallelamente a queste contraddizioni, da cui è nata la sensibilità verso la CSR, l’omogeneità qualitativa dei prodotti, risultato del progresso tecnologico, ha posto al centro delle motivazioni di acquisto quella reputazione che, nella società della comunicazione orizzontale, la pubblicità non è più in grado di costruire.

 

La nuova sensibilità rende la CSR il fattore in grado di accrescere il capitale reputazionale dell’impresa, rispetto alla quale il paradigma delle 4P non è più sufficiente. Occorre il marketing sociale, inteso in senso etico come “lo strumento per realizzare una superiore qualità della vita”,[12] non più come “scienza che studia e dirige il flusso dei beni e servizi dal produttore al consumatore”.[13]

Note

[1] Roberto Lo Jacono, Martina Widmann, Il social media marketing per le PMI. Guida all’uso dei social media nella Piccola e Media Impresa, Osservatorio Digitale PMI, Milano 2015, p. 10.

[2] Cfr. Francesco Pira, Andrea Altinier, Comunicazione pubblica e d’impresa, libreriauniversitaria.it, Padova 2014, pp. 190-196; Claudio Zara, La valutazione della marca. Il contributo del brand al valore di impresa, ETAS Libri, Milano 1997.

[3] Report dell’Osservatorio Mobile Marketing e Service della School of Management del Politecnico di Milano dicembre 2015.

[4] Carmelo Vigna (a cura di), Linee di un’etica dell’ambiente, in Id., Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 181-210.

[5] Cfr. Roberto Antonucci, Esercitazioni di comunicazione, libreriauniversitaria.it Edizioni, Padova 2015, pp. 121-123.

[6] Howard Bowen, Social Responsibilities of the Businessman, Harper & Brothers, New York 1953, p. 6. In realtà se questa è la prima definizione di CSR tradizionalmente riconosciuta i primi studi invece sono antecedenti agli anni ’30 del XX secolo, come testimonia l’articolo del 1927 pubblicato sulla Harvard Business Review dal Decano Wallace B. Donham. Sul tema si veda: Remo Bassetti, L’identità culturale delle aziende, FrancoAngeli, Milano 2016, pp. 84-85.

[7] Il dibattito sulla CSR è riconducibile alla perdita di credibilità che colpì i businessman all’indomani del crollo di Wall Street.  Nell’imaginario collettivo di una società sprofondata nella grande depressione prima, e coinvolta nel new deal in seguito, gli uomini di affari e indirettamente le imprese che questi rappresentavano, non godevano più di alcuna stima. Da questa constatazione è nata la riflessione moraleggiante di Bowl e di chi prima di lui, in piena crisi, aveva già percepito questo disagio. Cfr. Carlo Borgomeo, Mariangela Lancellota, Elisabetta Pessano, Coopowerment, fare impresa cooperando, in Samuele Sangalli (a cura di), Solidarietà e democrazia: Mediazione e dialogo tra ideali e realtà concrete, GBP, Roma 2014, p.241.

[8] In merito alla evoluzione del concetto di CSR si veda: Cecilia Chirieleison, L’ evoluzione del concetto di corporate social responsibility, in Gianfranco Rusconi, Michele Dorigatti, (a cura di), La responsabilità sociale di impresa, Franco Angeli, Milano, 2004.

[9] Nel 1979 Carroll identifica quattro tipi differenti di responsabilità per l’impresa: economiche, giuridiche, etiche ed infine discrezionali. Cfr. Archie B. Carroll, A Three-Dimensional Conceptual Model of Corporate Performance, in  Academy of Management Review, vol. 4, n° 4, 1979, 497-505.

[10] Nel 1991 Carroll identifica anche una gerarchia, in base al quale ordinare questi criteri di responsabilità, sulla base della loro importanza, dando vita alla cosiddetta “piramide delle responsabilità sociali di un’impresa”. Alla base è collocata la responsabilità economica, in funzione del prevalere della funzione economica rispetto alle altre, mentre a seguire sono posizionate le responsabilità di carattere giuridico. Il vertice del solido è costituito invece dalla responsabilità discrezionale, riferita appunto alle sole attività discrezionali da mettere in atto a favore della comunità. Dal posizionamento delle tre responsabilità non economiche è possibile pertanto dedurre la rilevanza attribuita all’indirizzo etico dall’impresa. Cfr. Id., The pyramid of corporate social responsibility, Toward the moral management of organizational stakeholders, «Business Horizons», 1991, n°34, pp. 39-48.

[11] Il punto di arrivo di questo processo di formazione della CSR è il passaggio dal concetto di “responsabilità” a quello di “sensibilità” sociale dell’azienda, intendendo la capacità di mettere in atto comportamenti conformi alle aspettative della società. I primi a teorizzare la sensibilità sociale dell’impresa furono Ackerman e Bauer nel 1976. Cfr. Robert Wallace Ackerman, Raymond Augustine Bauer, Corporate social responsiveness: the modern dilemma, Reston Pub. Co., Reston 1976.  Da questa nuova impostazione hanno prese corpo le nuove teorie che animano il dibattito contemporaneo. Si tratta della teoria degli stakeholder elaborata da Freeman negli anni ’80 in base alla quale tutti i “portatori di interessi” (i cosiddetti stakeholder appunto, intesi non solo come gli azionisti ma come tutti coloro che sono coinvolti nell’attività dell’impresa, cioè dipendenti, clienti e fornitori), divengono soggetti attivi capaci cioè di esercitare un’influenza rispetto alle scelte e all’attività stessa dell’azienda). Cfr.  Concetta Carnevale, Stakeholder, Csr ed economie di mercato. La complementarietà delle sfere economico-istituzionali, FrancoAngeli, Milano 2014, pp. 22-46.

[12] Sergio Sciarelli, Etica e responsabilità sociale nell’impresa, Giuffrè Editore, Milano 2007, p. 164. 

[13] Ralph. S. Alexander, American Marketing Association, 1960, in Mario Lepore, Ma cos’è il marketing? E come usarlo?, Demetra, Verona 1999, p.10.

Bibliografia

  • Ackerman Robert Wallace, Raymond Augustine Bauer, Corporate social responsiveness: the modern dilemma, Reston Pub. Co., Reston 1976.
  • Alexander S. Ralph., American Marketing Association, 1960, in Mario Lepore, Ma cos’è il marketing? E come usarlo?, Demetra, Verona 1999.
  • Antonucci Roberto, Esercitazioni di comunicazione, it Edizioni, Padova 2015.
  • Bassetti Remo, L’identità culturale delle aziende, FrancoAngeli, Milano 2016.
  • Borgomeo Carlo, Mariangela Lancellota, Elisabetta Pessano, Coopowerment, fare impresa cooperando, in Samuele Sangalli (a cura di), Solidarietà e democrazia: Mediazione e dialogo tra ideali e realtà concrete, GBP, Roma 2014, 229-280.
  • Bowen Howard, Social Responsibilities of the Businessman, Harper & Brothers, New York 1953.
  • Carnevale Concetta, Stakeholder, Csr ed economie di mercato. La complementarietà delle sfere economico-istituzionali, FrancoAngeli, Milano 2014.
  • Carroll B. Archie, A Three-Dimensional Conceptual Model of Corporate Performance, in Academy of Management Review, 4, n° 4, 1979, 497-505.
  • Id., The pyramid of corporate social responsibility, Toward the moral management of organizational stakeholders, «Business Horizons», 1991, n. 34, pp. 39-48.
  • Chirieleison Cecilia, L’ evoluzione del concetto di corporate social responsibility, in Gianfranco Rusconi, Michele Dorigatti, (a cura di), La responsabilità sociale di impresa, Franco Angeli, Milano, 2004.
  • Lo Jacono Roberto, Martina Widmann, Il social media marketing per le PMI. Guida all’uso dei social media nella Piccola e Media Impresa, Osservatorio Digitale PMI, Milano 2015.
  • Osservatorio Mobile Marketing e Service, School of Management del Politecnico di Milano
  • Pira Francesco, Andrea Altinier, Comunicazione pubblica e d’impresa, it, Padova 2014.
  • Sciarelli Sergio, Etica e responsabilità sociale nell’impresa, Giuffrè Editore, Milano 2007.
  • Vigna Carmelo (a cura di), Linee di un’etica dell’ambiente, in Id., Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, Milano 2001.
  • Zara Claudio, La valutazione della marca. Il contributo del brand al valore di impresa,ETAS Libri, Milano 1997.

Il Lupo, La Capra e Il Cavolo: Profitto, CSR ed Etica, l’esempio di una convivenza possibile

Pubblicato da CARLA DE SIMONE in 18 gennaio 2016
Pubblicato in: L'etica della vendita in pillole. Tag: CSR, Etica, Innovazione, Profitto, relazione con i clienti, RSI. Lascia un commento

 

Indovinello_Lupo-capra-cavolo1

Spesso coniugare profitto ed innovazione, non perdendo di vista Corporate Social Responsability e Customer satisfaction (in una parola l’etica), può sembrare una vera e propria “missione impossibile”.

Per certi aspetti una situazione simile al famoso indovinello del pastore alle prese con un lupo, una capra e un cavolo, da traghettare sull’altra riva del fiume: tre elementi che non possono coesistere facilmente.

Però ho due buone notizie. La prima è che se vuoi conoscere la soluzione dell’indovinello ti basterà seguire questo link. Inoltre sto per raccontarti l’interessante caso di una società che è riuscita brillantemente a far convivere profitto, innovazione ed etica. Il tutto incrementando gli utili, utilizzando innovative risorse tecnologiche, migliorando infine anche la qualità del proprio servizio.

La rivista americana Computerworld in questo numero, dello scorso ottobre, racconta il successo ottenuto da Horizon Blue Cross Blue Shield of New Jersey, una grande compagnia assicurativa americana, impegnata nel Managed Long Term Services and Supports (MLTSS).

Computerworld

Computerworld ottobre 2015 – clicca sulla immagine per leggere la rivista e l’articolo citato a p. 27

È un programma di assistenza sanitaria, promosso dallo Stato del New Jersey, riservato a persone indigenti, prive quindi di quella assicurazione che negli USA è indispensabile per avere diritto alle cure mediche.

L’obiettivo dell’iniziativa quindi era garantire assistenza medica proprio a quelle persone che vivevano per strada e dormivano sotto i ponti. Quelle che con un termine un po’ romantico qualcuno chiama clochard ma, a prescindere dal nome, restano senza tetto ed emarginati. Per Horizon si trattava quindi di portare i propri servizi al di fuori del sistema sanitario tradizionale.

 «Alla base di questo progetto, – ha dichiarato Erhardt Preitauer CEO of Horizon NJ Health, – ci sono assistenti sociali, infermieri e volontari che operano per la maggior parte del tempo a casa delle persone, nei centri di assistenza, incontrando le persone ovunque possono essere, anche sotto i ponti».

Inoltre molto spesso questo tipo di persone soffre di molte patologie croniche, compresi disturbi mentali, il che le rende la principale fonte di costo del sistema sanitario americano, assorbendo il 53% della spesa totale, pur rappresentando solo il 5% degli iscritti.

Seguendo la logica della massimizzazione del profitto la soluzione più ovvia sarebbe quella di eliminare quella esigua percentuale di iscritti, risparmiare così oltre la metà dei costi, aumentando il profitto e le risorse da reinvestire, ad esempio, per migliorare la qualità dell’offerta rivolta alla maggior parte degli iscritti/clienti. In questo modo si avrebbe un incremento sia del tenore di vita complessivo, del consenso sociale e del numero di clienti, grazie all’indotto positivo generato dall’incremento nella qualità dei servizi offerti.

Oltretutto, se analizziamo anche sotto il profilo statistico la questione, appare evidente che le condizioni di vita di una fascia così ristretta di popolazione non inciderebbero significativamente sull’intera società. Migliorare la qualità di vita del 5% della popolazione non aumenta la qualità di vita di un intero Paese (e nemmeno incrementa il consenso da parte del pubblico e dei potenziali clienti).

Insomma, in questa logica, si tratta di una esigua minoranza di emarginati, affatto remunerativa sia economicamente sia socialmente, per giunta ad alto costo assistenziale nei confronti della quale la soluzione più logica sembra essere proprio l’indifferenza.

Ma siamo sicuri che le cose stiano realmente così?

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Pagina del programma di Horizon cliccare sulla didascalia o sull’immagine per andare alla pagina del sito di Horizon

La storia in questo caso ci dice il contrario. La compagnia assicurativa Horizon ha accettato e vinto la sfida, coniugando etica, innovazione e profitto. Una missione in apparenza impossibile come quella di trasportare il lupo, la capra e il cavolo, che diventa superabile però a patto di cambiare l’approccio.

Se, tornando all’esempio dell’indovinello, il contadino avesse posto una condizione inderogabile, ad esempio tutelare il bene di maggior valore fra i tre, probabilmente commercialmente avrebbe finito per privilegiare la capra, perdendo però la possibilità di salvare anche il lupo e il cavolo, non prendendo in considerazioni altre possibili soluzioni.

Allo stesso modo se nel proprio modello di business Horizon avesse perseguito esclusivamente il profitto, rinunciando a osservare il problema anche da una prospettiva etica, cioè capace di tutelare sia l’azienda sia gli iscritti, non sarebbe riuscita a vincere la sfida di garantire i servizi anche a quel 5% di emarginati poco remunerativo e ad altissimo costo sanitario. Così avrebbe dovuto rinunciare all’incarico affidatogli dallo Stato del New Jersey perdendo un’opportunità di business.

Adottare una prospettiva etica quindi non significa rinunciare al profitto perché si diventa “troppo buoni”. Al contrario vuol dire avere il coraggio di adottare soluzioni innovative capaci di far diventare remunerativi anche business che all’apparenza non lo sono! Quindi l’approccio etico aumenta le opportunità di guadagno piuttosto che diminuirle.

Nel caso specifico Horizon ha scelto un innvativo approccio tencologico. In primo luogo ha sviluppato una App grazie alla quale collegare direttamente ogni assicurato al proprio database. Successivamente ha dotato tutti gli operatori di tablet e li ha formati sul loro utilizzo, per garantirsi il corretto inserimento dei dati dei clienti nel database aziendale.

Scopo della strategia era coinvolgere gli iscritti, capirne i bisogni reali in modo da migliorare sia la qualità dei servizi che ridurre notevolmente i costi. A questo scopo è stato elaborato un dettagliato questionario con oltre 500 domande, somministrato dagli operatori agli iscritti attraverso la App e il tablet.

In questo modo i dati raccolti per strada o nei luoghi in cui si trovavano gli intervistati venivano direttamente inseriti nel database e in seguito aggiornati di continuo ad ogni visita dei medici o degli operatori sociali.

I risultati sono stati sorprendenti: 11.000 iscritti al programma nel primo anno, con il più elevato tasso di soddisfazione mai registrato nei confronti di un fornitore di servizi. Allo stesso tempo, grazie al miglioramento del rapporto con i medici e assistenti sociali, è aumentata la fiducia e con questa il numero di visite da parte di iscritti al programma con malattie e patologie croniche.

grafico-in-salitaCiò ha permesso di evitare ulteriori aggravamenti a fronte dei quali sono necessarie cure più costose, riducendo quindi i costi sanitari. Si è messo in moto così un meccanismo virtuoso tramite cui la società con il 53% di quota di mercato ha affermato la propria leadership, e di conseguenza il margine di profitto.

Allo stesso tempo sono migliorate le condizioni di vita di quel 5% di emarginati fino a quel momento privi di qualsiasi forma di assistenza sanitaria. Il tutto senza tagli lineari dei costi o di prestazioni, ma la loro ottimizzazione ottenuta grazie a un innovativo approccio, che ha posto in primo piano l’etica, coniugando innovazione tecnologica e profitto.

Proprio come il nostro contadino che è riuscito a salvare Lupo, capra e cavoli. Alla base dell’approccio etico quindi c’è il coraggio di cambiare prospettiva, adottando soluzioni innovative. Sarà così possibile coniugare etica, profitto e Responsabilità Sociale d’ Impresa.

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