In questi giorni navigando in rete mi sono imbattuta in un interessante articolo pubblicato sul corriere.it nel 2011, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Nel pezzo Giuseppe Monsagrati, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma spiegava che «L’unità fece molta presa sulla gente ma ovviamente non riuscì a risolvere i problemi. Il nostro reddito pro capite era la metà di quello inglese e un terzo di quello francese. Chi nasceva in quel momento doveva fare i conti con un paese povero di risorse, materie prime e infrastrutture».[1]
Luciano Cafagna, storico ed esperto delle questioni legate alla formazione dell’economia industriale in Italia, ha calcolato che al momento dell’unificazione la differenza di capacità produttiva tra nord e centro-sud nel settore agricolo, ancora trainante all’epoca, andava dal 10 al 20%.[2]
In ambito industriale, settore innovativo in piena crescita nel 1861, le regioni del nord producevano undici volte più ferro di quelle del meridione d’Italia, mentre rispetto all’Inghilterra, all’epoca la nazione più industrializzata, dunque maggiormente “tecnologica”, la differenza si aggirava intorno al 100%.[3]
La scarsa capacità produttiva era conseguenza della mancanza di infrastrutture in grado di supportare lo sviluppo industriale. Lo storico Emanuele Felice ci informa, ad esempio, che gli abitanti del Regno delle due Sicilie nel 1859 disponevano di 99 chilometri di ferrovia, contro gli 850 di liguri e piemontesi, 522 dei lombardo-veneti e 257 dei toscani.[4]
Già nel periodo antecedente all’unificazione nelle aree centro settentrionali, sia in grandi città come Milano, Torino e Genova sia nei piccoli centri, si sviluppa una rete di intermediazione finanziaria con l’apertura di sportelli di Banche e Casse di Risparmio. Un fattore che si dimostrerà strategico nel supportare lo sviluppo economico e industriale, assente tuttavia nelle aree meridionali.[5]
In altre parole, al momento dell’unificazione il 52% della popolazione al sud viveva al di sotto della soglia di povertà, con un reddito inferiore del 20/25% rispetto a quello degli abitanti del nord. Inoltre il tessuto economico era pressoché del tutto privo di moderne infrastrutture industriali, equivalenti in termini di innovazione alle attuali tecnologie digitali.[6]
Cosa è cambiato dopo oltre 150 anni? In primo luogo la parola d’ordine non è più “Rivoluzione Industriale” ma “Digital Innovation”. In pochi decenni, le tecnologie digitali hanno trasformato il modo in cui comunichiamo con gli altri, facciamo affari, produciamo lavoriamo e perfino come trascorriamo il nostro tempo libero.
Rapidi sviluppi e trasformazioni comportano molteplici aspettative per il futuro, in termini di ricchezza prodotta, progresso tecnologico e più elevati standard di vita. Per contro pongono nuove sfide in termini di acquisizione di nuove competenze,
L’emergere di nuovi mercati sempre più dinamici necessita di maggiori tutele dei consumatori, ottimizzazione dei processi industriali, maggiore fiducia, garanzie di sicurezza e tutela della privacy. Occorre verificare quindi se, oltre alla “parola d’ordine” è cambiato anche il contesto e si sono realizzate quindi le premesse per la realizzazione di questa trasformazione.
Ad oggi, sotto il profilo della innovazione digitale e nel senso più generale dello sviluppo, l’unità nazionale è ancora lontana dall’essere realizzata. Il Digital Divide è una realtà, come sanno molto bene gli imprenditori che lavorano nelle aree più problematiche.
Non a caso sono stati stanziati 3,5 miliardi delle cosiddette “aree bianche” (quelle a fallimento di mercato dove un operatore privato, senza fondi pubblici, non investirebbe), dislocate in 7300 comuni dove risiedono 18 milioni di italiani.
Di questi 1,6 miliardi arrivano dal Fesr (fondi regionali europei), 233 milioni da fondi Pon, (il Piano Operativo Nazionale di sviluppo), destinati a Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, ma soprattutto 1,557 miliardi sbloccati dal Cipe lo scorso 8 agosto.
L’obiettivo è quello di garantire entro il 2020 una copertura dell’85% del territorio nazionale con infrastrutture in grado di supportare servizi fino a 100mega e assicurare al restante 15% una velocità pari ai 30mega, come richiesto a tutti i membri dell’Unione Europea. [7]
Tuttavia l’obiettivo è prioritario in quanto soprattutto la Rete italiana ad oggi lascia ancora molto a desiderare. Il rapporto Akamai relativo al primo trimestre 2016 ad esempio, evidenzia la presenza in Italia solo del 7% di connessioni uguali o superiori ai 15 Mbps.
Il nostro Paese scende nella classifica posizionandosi al 52esimo posto a livello mondiale e al 28esimo a livello EMEA. Un quadro ben poco lusinghiero, soprattutto per una nazione la cui economia ha una disperata necessità di tornare a crescere.
Il Digital Divide che affligge il mezzogiorno è il risultato di una modernizzazione mancata o insufficiente, frutto di iniziative estranee al tessuto imprenditoriale locale. Di conseguenza l’imprenditoria locale è relegata in ruoli marginali, non è messa in condizione di generare uno sviluppo autonomo, correttamente sostenuto e finanziato dall’esterno.
Ogni volta che attraverso il pretesto di stimolare lo sviluppo di un’area, si sovrappongono ai reali bisogni locali interessi estranei, si preclude la possibilità di un «protagonismo endogeno», ossia di uno sviluppo realmente radicato su territorio.[8]
Guardando alla storia passata ritroviamo fallimentari progetti industriali che hanno deturpato aree turistiche come Bagnoli in nome di una industrializzazione quanto meno forzata o di cattedrali nel deserto come la spianata di Gioia Tauro, dove sono sati rasi al suolo aranceti secolari per fare posto a un porto industriale mai realizzato.
Oltre il 65% delle aziende italiane si trova nella cosiddetta “area grigia”, dove il governo cioè non può accedere direttamente per portare la banda ultralarga, si trovano dunque in una condizione in cui non sanno quando e se arriverà mai il progetto di sviluppo digitale.[9]
In simili condizioni è d’obbligo chiedersi allora come è possibile pensare a un’Industria 4.0 senza banda larga ed ancora attraverso quali strategie è possibile incrementare la produttività rinunciando alla banda ultralarga, in altre parole dobbiamo domandarci se è possibile ottenere uno sviluppo economico rinunciando all’innovazione.
Se pensiamo al futuro, dotare di banda ultralarga aree già commercialmente avviate, condannerebbe buona parte del meridione a rimanere in quella condizione di mancato o insufficiente sviluppo che tuttora, dopo oltre 150 anni, continua a farci dire che l’unificazione non si è ancora conclusa.
Dato ulteriormente negativo sul piano sociale, così facendo in qualche modo si giustificherebbe la classificazione dei cittadini italiani, del nord e del centro-sud, rispettivamente in cittadini di “serie A” o di seconda categoria, con di fatto minore accesso ai servizi ma uguali doveri.
Sul piano dello sviluppo infine continueremmo ad avere una Italia a due velocità, con un sistema produttivo fortemente penalizzato, che inevitabilmente finirebbe per incidere sulla competitività del nostro Paese, già duramente provato da una crisi che richiede investimenti oculati e lungimiranti.
BIBLIOGRAFIA
[1] Giuseppe Monsagrati in Corinna De Cesare, 1861. L’Italia unita fanalino di coda rispetto all’Europa, «Corriere della Sera», 10 marzo 2011, on line: http://www.corriere.it [ultima consultazione 27/11/2016 h, 12,10].
[2] Cfr. Luciano Cafagna, La questione delle origini del dualismo economico italiano, in Id, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989, pp. 187-220.
[3] Cfr. Guido Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico in Italia 1750-1913, Nuova Cultura, Roma 2015, p. 141.
[4] Cfr. Emanuele Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna 2013, p. 22.
[5] Cfr. Id, Divari Regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia, Il Mulino, Bologna 2007, p. 170.
[6] Cfr. Ivi, p. 119; Id, Perché il sud, op. cit., p. 44.
[7] Il Sole 24 ORE del 04/02/2016, pagina 11.
[8] Cfr. Felice, Perché il sud, op.cit., p.111.
[9] Cfr. Start Magazine, Banda Ultralarga, il dramma delle aree grigie, 2 settembre 2016, on line: http://www.startmag.it/innovazione/banda-ultralarga-dramma-delle-aree-grigie/ [ultima consultazione 27/11/2016 h 16,30].