Omogeneità qualitativa. Potrebbe sembrare il nome di una nuova corrente New Age, invece è l’espressione adottata per descrivere la mancanza di differenziazione tra i prodotti, che caratterizza il mercato contemporaneo (Kotler, Amstrong, 2006). Per l’uomo della strada equivale a dire che “uno vale l’altro”.
L’allineamento degli standard produttivi ormai è un dato di fatto assodato, confermato dalla sostanziale equivalenza qualitativa fra prodotti concorrenti (Pira, Altinier, 2014).
iPhone e Samsung Galaxy, Mc Book Air e Asus Zenbook, piuttosto che Coca Cola e Pepsi Cola, sono esempi di questo livellamento che non rispecchia tuttavia i comportamenti dei consumatori.
Perciò osservando questa dinamica dal punto di vista del venditore e ancora di più in una prospettiva di vendita etica, è interessante chiedersi per quale ragione (statistiche alla mano) il consumatore preferisce iPhone piuttosto di Samsung Galaxy, Mc Air invece di Asus e per quale motivo preferisce Coca Cola invece di Pepsi Cola. Come pure è utile capire perché continua a scegliere questi prodotti anche quando i concorrenti costano meno.
Una delle principali ragioni risiede nella convinzione del consumatore che sono migliori, o più affidabile l’azienda che li ha realizzati, pur sapendo in realtà che “uno vale l’altro”.
In una parola la motivazione risiede nella soddisfazione che il cliente/consumatore prova nel possederli, risultato dei benefici che ne ottiene, al netto del costo sostenuto, rispetto ai prodotti della concorrenza (Zara 1997).
A fare la differenza, nel determinare la scelta, è il modo in cui è percepita sia l’azienda sia il prodotto stesso, cioè la credibilità che gli è riconosciuta. In una parola la reputazione. Compriamo iPhone perché ci sembra che sia “più figo” averlo rispetto al prodotto concorrente, non per la migliore qualità o il minor prezzo, piuttosto per la sua brand reputation.
Per capire meglio quanto la reputazione influenza le scelte di acquisto, a volte anche in modo inaspettato, prendiamo il recente scandalo Volkswagen. Come tutti certamente ricordiamo, si tratta della manomissione di alcuni sistemi per alterare i risultati dei test sulle emissioni inquinanti e far apparire alcune auto molto più ecologiche, di quanto non lo siano realmente.
A fronte di una simile “bomba” tutti ci saremmo aspettati un crollo delle vendite (con tanto di autorevoli analisi come questa di primaonline.it). Invece, contro ogni aspettativa, dopo un iniziale calo, Volkswagen Italia a novembre 2015 ha registrato un + 21% (Repubblica.it).
Più significativo ancora è l’incremento ottenuto dall’intero brand, l’elemento maggiormente danneggiato in termini di reputazione, dallo scandalo. L’insieme dei marchi commercializzati dal gruppo infatti ha segnato + 27% (ANSA).
Per quanto sorprendente però non è la prima volta che in Italia si verifica una situazione simile. Nel 2003 già con Parmalat abbiamo assistito a un’analoga dinamica di mercato.
A seguito della bancarotta fraudolenta del Gruppo, emerse un falso in bilancio che provocò un enorme danno all’ immagine e alla reputazione di Parmalat,

Le Vignette di Ale da http://www.segnalidifumo.it
oltre alla perdita degli investimenti di molti piccoli risparmiatori, proprietari di azioni della società.
Eppure i marchi dell’azienda (Latte Parmalat, Panna Chef, Santal etc. etc.), in quel periodo non subirono flessioni nelle vendite (Siano, Sciglioccolo, 2015 ). L’ira dei consumatori traditi, spesso anche risparmiatori, si riversò solo sull’azienda risparmiando i vari prodotti.
Il motivo è che Corporate reputation e brand reputation rappresentano due lati della stessa medaglia, l’una influenza l’altra, attraverso una relazione circolare.
È questo il meccanismo grazie al quale Volkswagen, tramite la reputazione dei suoi prodotti apprezzati per affidabilità e qualità, ha riequilibrato la perdita di credibilità del marchio.
Insomma, chi riteneva la Golf un’ottima macchina prima dello scandalo, non ha cambiato idea. Allo stesso modo chi beveva latte Parmalat ha continuato a farlo, nonostante la perdita di reputazione dell’azienda.
Così mentre il danno d’immagine ha coinvolto la Corporate reputation delle due società, frutto della percezione dell’intero mercato, non ha intaccato la brand reputation dei loro prodotti, risultato esclusivamente della soddisfazione del cliente.
I due casi, tralasciando qualsiasi valutazione di carattere etico, (ci sarebbe da chiedersi per esempio come mai in Paesi come America e Inghilterra invece c’è stato un flop delle vendite di Volkswagen), mostrano l’effettiva interazione tra reputazione di prodotto e corporate, capaci di condizionarsi e supportarsi a vicenda.
Infatti se è vero che la brand reputation è in grado di influenzare la credibilità del marchio aziendale, allo stesso modo accade l’inverso: una buona reputazione aziendale supporta una favorevole percezione del prodotto, trasferendogli credibilità, perfino nel caso di scarsa qualità.
Restando in tema di macchine è nota fra gli appassionati la storia della Ferrari 348, considerata un pessimo modello, “ripudiata” dallo stesso Montezemolo
Tuttavia il prodotto ancora oggi è strenuamente difeso da molti fans del marchio ( un esempio su questo forum, mentre su questo di 4R i giudizi sono più equilibrati, nonostante il dibattito sia vivace). Un evidente esempio di come il valore del Corporate Brand si è riversato sul prodotto.
Questa relazione circolare fra corporate e brand reputation mette in luce il ruolo strategico della reputazione. Risultato dell’esperienza e delle scelte compiute dall’azienda, dunque difficilmente imitabile, rappresenta un vero e proprio capitale.
Si tratta di un patrimonio intangibile, che permette all’impresa di ottenere vantaggi competitivi nel lungo periodo e trasferire a livello di brand aziendale i valori del marchio di prodotto, rafforzandolo. (Siano, Sciglioccolo, 2015 ). Tutto ciò a patto di saper governare la complessa evoluzione della dinamica fra domanda e offerta.
In questo senso è necessaria una ulteriore distinzione. La reputazione dell’ azienda dipende in massima parte dalla valutazione delle altre organizzazioni, in relazione alla sua capacità di soddisfare le loro aspettative. All’opposto, la brand reputation essenzialmente è il risultato delle percezioni e della interazione dei clienti col prodotto. Perciò l’elemento cardine di questa dinamica cliente-brand è la vendita, in modo più specifico la vendita etica.
Solo grazie alla relazione con il cliente, in un mercato qualitativamente omogeneo, è possibile il corretto trasferimento al consumatore-potenziale cliente, delle caratteristiche che costituiscono l’identità del brand, differenziandolo dalla concorrenza.
In questo processo è centrale il ruolo del venditore etico, interfaccia fisica, umana e visibile, dell’azienda sul mercato, (perciò privilegiata), capace di instaurare una relazione sia con i potenziali clienti, sia di mantenere e incrementare il rapporto con quelli già acquisiti.
Essere venditori etici vuol dire saper creare un piano di dialogo a lungo termine, basato sulla capacità di identificare e soddisfare le esigenze del cliente/consumatore. In questo marketing relazionale il valore della vendita perciò è rappresentato dalla soddisfazione del cliente, non più dalla massimizzazione delle quote di mercato e dal conseguente profitto.
Ad imporre questa nuova prospettiva di vendita relazionale, che Kevin Roberts ha definito the future beyond brands, da un lato è un mercato qualitativamente livellato, dominato dall’ eccesso di offerta, dall’altro i potenziali clienti più informati ed esigenti, con cui è diventato vitale instaurare una profonda relazione capace di qualificare il brand.
In un simile scenario, dove l’attenzione si sposta dalla vendita standardizzata all’offerta personalizzata, dalla notorietà di marca all’amore per il marchio (il lovemarks di Roberts) e dalla garanzia di qualità alla reputazione, la sfida è non limitarsi a una pur necessaria comunicazione aziendale trasparente e coerente.
I cambiamenti sociali ed economici degli ultimi venti anni hanno trasformato il mercato, sostituendo l’economia dell’offerta con quella di domanda, in cui al centro dell’attività economica non si trova più l’impresa ma il consumatore, con le sue nuove aspettative ed esigenze.
Soddisfatti i bisogni primari, grazie alla maggiore disponibilità economica, i consumatori sono alla ricerca di beni e servizi in grado di supplire ad esigenze che oltrepassano l’ambito fisiologico. Attraverso il consumo l’uomo post moderno ricerca autorealizzazione, sicurezza, socializzazione e affermazione sociale.
Solo imparando a conoscere l’insieme di queste esigenze ed aspettative, attraverso gli strumenti tipici del marketing relazionale e una capillare azione sul campo, svolta da professionisti della vendita, sarà possibile creare una profonda e duratura relazione, capace nel tempo di fidelizzare la clientela e incrementarne gli acquisti.
Assume perciò un importanza tutt’altro che secondaria, in questa prospettiva, la figura del venditore. La stessa a cui in definitiva è delegata la comunicazione personale e diretta ai clienti dei valori e delle peculiarità del brand.
Inoltre, attraverso la conoscenza dei bisogni e al contatto diretto, il brand sarà valorizzato dalla soddisfazione del cliente. In questo modo il suo valore investirà anche il corporate brand, grazie alla loro relazione circolare, consentendo all’azienda di differenziarsi e vincere rispetto alla concorrenza.
Esattamente quello che ha fatto Steve Jobs quando ha fondato per la prima volta la sua azienda e dopo 20 anni quando fu chiamato a rifondarla ex novo. Creare e vendere prodotti partendo dalle esigenze dei clienti, facendo acquisire valore al brand, attraverso la loro soddisfazione.
É questa in estrema sintesi la strategia alla base del marketing relazionale, necessaria in questo mercato qualitativamente omogeneo, dominato dalla domanda, cioè dalle richieste dei consumatori.
Una soluzione attuabile attraverso la vendita etica, che vede proprio nella soddisfazione il valore della propria azione e nel venditore la punta di diamante dell’azienda, grazie alla quale porla in essere.
Elemento dell’azienda più prossimo all’utilizzatore, il venditore infatti è in grado di coglierne umori, opinioni, bisogni ed aspettative, tutti elementi indispensabili per dare vita a quella profonda, duratura relazione fra azienda e clienti, capace di fidelizzarli, generando il costante incremento delle vendite.
Bibliografia
- KOTLER PHILIP, GARY ARMSTRONG, Principi di Marketing, trad. it., Pearson Paravia Bruno Mondadori , Torino 2010, pp. 73-188.
- KOTLKER PHILIP, WALDEMAR A. PFÖRTSCH, La gestione del brand nel B2B, trad.it., Tecniche Nuove, Milano 2008, pp. 264.266.
- PIRA FRANCESCO, ANDREA ALTINIER, Comunicazione pubblica e d’impresa, libreriauniversitaria.it, Padova 2014, pp. 190-196.
- ROBERTS KEVIN, Lovemarks. Il futuro oltre il brand, trad. it., Mondadori 2005.
- SIANO ALFONSO, AGOSTINO VOLLERO [et alii], (a cura di), Corporate Communication Management,Accrescere la reputazione per attrarre risorse, Giappichelli Editore, Torino 2015, pp. 25-44.
- VENTURI FABIO,Reinventare la strategia. Dalla guerra dei prezzi alla competizione pacifica: Dalla guerra dei prezzi alla competizione pacifica, FrancoAngeli, Milano 2015, pp. 150-155.
- ZARA CLAUDIO, La valutazione della marca. Il contributo del brand al valore di impresa, ETAS Libri, Milano 1997.